IL TRAFFICO DI INFLUENZE “INESISTENTI” E LA POSIZIONE DEL COMPRATORE DI FUMO
La legge n. 3 del 9 gennaio 2019 (e.ci. riforma “Spazza-corrotti“), nata dall’impulso degli obblighi internazionali assunti sia dall’Italia che da altri Paesi europei, tutti uniti nell’ attuare una politica comune di repressione del fenomeno corruttivo, rappresenta il punto di arrivo di un frastagliato percorso di riforme, già avviato nel 2012 allo scopo di potenziare l’attività di accertamento dei reati contro la Pubblica Amministrazione.
La lotta alla corruzione si è incentrata su una serie di interventi legislativi di tipo essenzialmente preventivo, volti cioè ad anticipare la soglia della tutela giuridica del buon andamento e dell’imparzialità della P.A.
L’abrogazione del delitto di millantato credito, originariamente disciplinato dall’art. 346 c.p. e, successivamente, riassorbito nella fattispecie criminosa del “traffico di influenze illecite” ex art. 346-bis c.p., a sua volta modificata dalla legge n. 3 del 2019, rappresenta forse il punto focale della politica di prevenzione portata avanti negli ultimi anni, politica che, pur con le migliori intenzioni, non ha tuttavia consentito di risolvere i contrasti interpretativi ed applicativi tuttora esistenti nel rapporto tra le due norme.
Se da un lato, infatti, il riassorbimento del delitto di millantato credito in quello del traffico di influenze illecite consente di superare le criticità relative all’individuazione del bene giuridico oggetto di tutela, mettendo evidentemente in primo piano l’intenzione esclusiva di salvaguardare il prestigio e l’onore della Pubblica Amministrazione, d’altro canto tale intervento di riforma ha determinato una vera e propria “trasfusione” di due norme sostanzialmente diverse, facendo emergere, almeno apparentemente, un fenomeno di continuità normativa per quanto concerne la condotta del trafficante dell’influenza inesistente e la nuova incriminazione (che come tale sarebbe sottoposta al principio di irretroattività) nei confronti del compratore dell’influenza.
Tale aspetto è stato variamente analizzato dalla giurisprudenza di legittimità che, sin dall’inizio, ha accolto con favore la predetta interpretazione della norma, affermando, tra l’altro, che nell’equiparare la relazione solo millantata alla rappresentazione di una relazione realmente esistente, “sarebbero state finalmente superate le criticità nel rintracciare in concreto il discrimen tra i due reati, scaturenti dalla effettiva difficoltà di verificare l’esistenza o meno della possibilità di influire sul pubblico agente” .
A sostegno della continuità normativa è stato altresì affermato come tra le due fattispecie esista un rapporto di genere a specie. In particolare, il nuovo delitto di traffico di influenze punisce in un’unica fattispecie colui che vanti sia relazioni esistenti che relazioni meramente asserite, includendo tutte le condotte che, ante L. 3/2019, rientravano nel millantato credito.
Emergerebbe, pertanto, icto oculi come la condotta millantatoria non abbia perso il suo disvalore penale. Inoltre, che si tratti di abrogatio sine abolitione si desume chiaramente anche dalla Relazione di accompagnamento al disegno di legge.
Ma, come solitamente accade, per ogni orientamento giurisprudenziale, ve ne è un altro diverso e contrastante che sembra, tra l’altro, stia prendendo piede proprio nella giurisprudenza di legittimità dell’ultimo anno e che, attraverso un’analisi scrupolosa delle condotte delineate nel nuovo art. 346-bis c.p., nega totalmente la sussistenza di alcuna continuità normativa tra le due norme, facendo invece riemergere la tradizionale assonanza tra l’abrogato art. 346 Il comma c.p. ed il delitto di truffa.
La pronuncia in esame, che segue questa nuova tendenza, fa luce sulla sostanziale divergenza tra la norma abrogata e quella di nuovo conio, scandagliando tutti gli elementi strutturali del delitto di traffico di influenze illecite ed arrivando a delle conclusioni che, seppur non fatte proprie dalla giurisprudenza maggioritaria, seguono un percorso argomentativo oculato ed attento.
Non esiste, quindi, continuità normativa tra il vecchio delitto di millantato credito ed il nuovo traffico di influenze illecite, ma esiste continuità normativa , ai sensi dell’art. 2, IV comma c.p. tra l’art. 346, comma Il abrogato ed il delitto di truffa che, quindi, riespande il proprio ambito applicativo.
Queste sono le conclusioni cui perviene la VI sezione penale della Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 28657 del 2 febbraio 2021, depositata il 22 luglio scorso, accoglie il primo motivo di ricorso proposto dall’imputato ed annulla la pronuncia di secondo grado, invitando il giudice del rinvio, ad accertare il senso e la portata del patto tra venditore e compratore di fumo.
La questione oggetto del primo motivo di impugnazione, ritenuto fondato dai giudici di legittimità, attiene, quindi, al se vi sia continuità normativa tra la fattispecie di cui all’art. 346 comma Il c.p. e quella del traffico di influenze illecite ovvero se l’area un tempo presidiata dalla millanteria corruttiva, sia ora inquadrabile nel delitto di truffa.
Si tratta, invero, di un dibattito che non è mai stato del tutto estraneo alla giurisprudenza né tantomeno agli illuminati della dottrina maggioritaria. Delle affinità tra la vecchia autonoma fattispecie criminosa di cui al comma 2 dell’art. 346 c.p. ed il delitto di truffa se ne è, infatti, sempre discusso, data la necessità di ricostruire in maniera più o meno determinata il bene giuridico tutelato dalla disciplina del millantato credito.
Diverse sono state le impostazioni dottrinarie che hanno concepito il millantato credito come una particolare ipotesi di truffa, affiancando alla tutela del prestigio della P.A. quella dell’interesse patrimoniale del compratore di fumo che viene indotto in errore dal millantatore.
La stessa casistica giudiziaria, ancor prima della introduzione nel codice penale del nuovo art. 346-bis, metteva spesso in evidenza come il raggiro, tipico del reato contro il patrimonio, consistesse, in questo caso, nel presentare il pubblico ufficiale destinatario di pressioni amicali, come arrendevole.
Tornando nello specifico al contenuto della pronuncia in commento, la Corte di Cassazione annulla la sentenza del Giudice di secondo grado che, dopo aver riqualificato i fatti contestati nell’ambito della disciplina di cui all’art. 346-bis c.p., aveva confermato il giudizio di penale responsabilità dell’imputato, identificandolo non come un “millantatore” ex art. 346, comma 2 c.p., bensì come un trafficante di influenze illecite.
L’organo nomofilattico ripercorre con una certa linearità le principali argomentazioni che sorreggono l’orientamento giurisprudenziale predominante che, facendo leva su quanto espressamente affermato dal Legislatore che, nella Relazione di accompagnamento al disegno di legge, palesa l’intenzione di una abrogatio sine abolitione, evidenzia la sostanziale sovrapponibilità della condotta “strumentale” (stante l’equipollenza semantica fra le espressioni “sfruttando o vantando .. relazioni asserite” e quella di “millantato credito”) e della condotta “principale” di ricezione o di promessa , per sé o per altri, di denaro o altra utilità, affermando quindi la sussistenza di continuità normativa tra le due fattispecie.
i ritiene quindi del tutto irrilevante che la norma di cui ali’ art. 346-bis c.p. non riproponga espressamente la dizione contenuta nell’art. 346, 2 comma c.p., lì dove si richiedeva che l’agente avesse ottenuto il vantaggio con il “pretesto” di dover remunerare i pubblico funzionario, atteso che in seguito alla novella, il delitto di cui all’art. 346-bis c.p. prescinde dalla reale esistenza delle relazioni vantate.
La VI Sezione invece, nel contestare quanto fermamente assunto dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, non solo ritiene che la volontà espressa dal Legislatore nella Relazione di accompagnamento al disegno di legge sia un criterio interpretativo recessivo rispetto agli altri, quindi non di per sé idoneo a dare una definitiva soluzione alla questione, ma afferma l’insussistenza di alcuna continuità normativa tra l’art. 346 comma 2 c.p. ed il nuovo art. 346-bis c.p., proprio in quanto in quest’ultima fattispecie non risulta ricompresa la condotta di chi mediante artifici o raggiri si fa dare o promettere danaro o altra utilità col pretesto di dovere comprare il pubblico ufficiale o impiegato o doverlo comunque remunerare, condotta che invece integra il reato di cui all’art. 640 c.p.
I giudici di legittimità, dopo aver accuratamente premesso come la Corte di Cassazione abbia da sempre chiarito che la condotta di cui ali’ art. 346 comma 2 c.p., configurasse, sotto il profilo del “pretesto” quella componente di frode tipica del reato di truffa, descrivono le svariate motivazioni che smentiscono l’esistenza di alcuna continuità normativa tra l’abrogato art. 346 c.p. ed il nuovo art. 346-bis c.p., confermando quindi quei dubbi interpretativi già emersi all’indomani dell’entrata in vigore della riforma e argomentazioni introdotte dalla Corte di Cassazione, incentrandosi sulla offensività e sulla lesione del bene giuridico tutelato, attengono essenzialmente alla struttura del nuovo reato che, ricomprendendo in sé una molteplicità di condotte penalmente rilevanti, inserisce la punibilità, in qualità di compartecipe, anche del c.d. “compratore di fumo”, indipendentemente dal fatto che questi possa essere stato o meno indotto in errore riguardo alla sussistenza della relazione tra il mediatore ed il pubblico funzionario.
La norma introduce, sempre nell’ottica di una maggior efficacia repressiva, una tutela avanzata sia della legalità che dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione, punendo una serie svariata di condotte prodromiche (a fatti corruttivi) che si incentrano prevalentemente sul “potere di influenza” del mediatore nei confronti del pubblico agente, ricomprendendo sia relazioni inesistenti – che rimangono tali o che possono concretizzarsi in un momento successivo- sia relazioni esistenti, anche solo in via potenziale, che assumono diverse modulazioni e gradazioni, sulla base delle “asserzioni” del venditore.
E qui si concentra il nodo sostanziale della questione: quando la capacità di influenza del mediatore sul pubblico agente non solo è in quel momento inesistente ma diventa anche impossibile, non potendo instaurarsi alcun futuro rapporto con quest’ultimo, qual è il disvalore che giustifica l’incriminazione della condotta del compartecipe?
In tal caso, infatti, l’inganno dell’ “acquirente” sulla circostanza che il “mediatore” non abbia in realtà alcuna capacità di influenzare la condotta dell’agente pubblico, non appare un presupposto sufficiente a giustificare una sua punibilità: sottoporre alla medesima disciplina sanzionatoria anche la condotta dell’ex “compratore di fumo” ingannato vorrebbe dire, infatti, punire solo una sua intenzione (illecita o criticabile), rischiando di mettere in discussione anche la compatibilità della norma con i principi costituzionali di offensività e di proporzionalità.
Sarebbe quindi, maggiormente condivisibile affermare come solo l’esistenza di una relazione tra mediatore e pubblico agente possa giustificare anche l’incriminazione della condotta del e.ci. “compratore”, realizzando quell’anticipazione della tutela voluta dal Legislatore con l’introduzione della nuova fattispecie dell’art. 346-bis c.p.
Così, afferma la VI Sezione penale, solo l’esistenza – potenziale o effettiva- della relazione tra trafficante e funzionario pubblico si presterebbe a realizzare quel vulnus alla pubblica funzione tale da determinare una punibilità.
Laddove invece tale presupposto non esista, data l’impossibilità del mediatore di influenzare il pubblico agente, la P.A. resterebbe estranea, sia in astratto che in concreto, da una prospettiva di pericolo.
Tale affermazione renderebbe ancor più evidente la distinzione contenutistica tra il nuovo art. 346-bis c.p. e l’abrogato art. 346 comma 2 c.p., la cui condotta non si presta a realizzare un vulnus alla pubblica funzione né agli interessi pubblici teleologicamente tutelati dalla nuova norma.
Pertanto, la vendita di un’influenza che non esiste e che mai potrà essere esercitata, determinando sul privato compratore di fumo una situazione di errore che lo induce a dare o promettere un qualcosa che altrimenti non avrebbe fatto, ha una maggiore assonanza con il paradigma criminoso della truffa piuttosto che con il mercanteggiamento di un’influenza reale volta a minare il buon andamento e l’imparzialità della PA.
Le conclusioni della Corte, alla luce delle suesposte argomentazioni, sono pertanto inevitabili: la continuità normativa di cui tanto si discute e che trova fondamento nell’art. 2 comma 4 c.p., non può ritenersi sussistente rispetto all’art. 346-bis c.p., ma è invece sussistente tra l’art. 346 comma 2 c.p. e l’art. 640 c.p. Non è infatti comprensibile il motivo per cui il privato, solo perché indotto in errore dalla condotta ingannatoria del venditore di fumo, dovrebbe essere considerato alla stregua di un compartecipe nel medesimo delitto di traffico di influenze illecite.
L’orientamento giurisprudenziale sopra delineato, espressivo di una opinione minoritaria (ma forse ancora per poco) rappresenta, senza ombra di dubbio, la riprova delle perduranti difficoltà applicative della norma in questione.
Nulla quaestio in merito alle buone intenzioni del Legislatore che, sin dal 2012, con l’introduzione del nuovo art 346-bis c.p., ha dimostrato con una certa determinazione la volontà di “reprimere prevenendo” qualunque forma di condotta corruttiva.
E’ lecito tuttavia chiedersi se la tanto decantata politica preventiva, seppur nell’ottica di combattere al meglio il fenomeno corruttivo, non rischi di pervenire ad un risultato del tutto opposto rispetto a quello effettivamente desiderato e ciò non solo dal punto di vista sostanziale – inducendo, quindi, nel dubbio, ad una non applicazione della norma in questione – ma anche sotto l’aspetto processuale, facilitando l’elaborazione di futuri capi di imputazione per la pubblica accusa non ancora supportati da un “rinforzo” probatorio che possa essere idoneo a soddisfare le esigenze tuttora emergenti in sede di indagini.