Intervista Avv. Mario Scialla - Avvenire.it 1/07/2021

Antonella Mariani giovedì 17 dicembre 2020

L’analisi. Gli avvocati e la difesa dei femminicidi. C’è l’obiezione di coscienza?

Un crimine non è uguale a un altro. E nemmeno un criminale, o presunto tale, è uguale a un altro. Ma tutti, dal ladro di polli al serial killer, hanno diritto a essere assistiti da un avvocato, perché «la difesa è diritto inviolabile», come recita l’articolo 24 della Costituzione.

Il principio del diritto alla difesa in capo anche al più abietto dei criminali è talmente introiettato nella società italiana che, per contrasto, ha suscitato molto clamore, nelle scorse settimane, il “gran rifiuto” di una avvocata ad assistere il reo confesso dell’omicidio della compagna.

«Mi dispiace, ma le mie battaglie preferisco farle per le donne», ha spiegato Rosanna Rovere, già presidente dell’Ordine degli avvocati di Pordenone in una delle numerose interviste concesse ai giornali.

La vicenda si è consumata il 26 novembre, all’indomani della Giornata contro la violenza alle donne, punteggiata da manifestazioni desensibilizzazione in tutta Italia e purtroppo anche da due femminicidi. La coincidenza della data ha senz’altro offerto più visibilità alla vicenda, che tuttavia non è una “prima volta” in questo ambito del penale.

Si ricorda infatti che alla vigilia di Natale del 2018 due avvocati rifiutarono di assistere l’uomo che aveva strangolato la moglie a Sassari, a causa -si disse -dell’ondata di commozione e di sdegno che il delitto aveva suscitato.

E per andare fuori dai confini nazionali è celebre il caso dei tre “no” incassati in piena campagna #metoo dal molestatore seriale di Hollywood Harvey Weinstein, la cui difesa fu infine accolta da Donna Rotunno.

Il caso di Pordenone, comunque sia, solleva alcuni interrogativi sulla professione di avvocato al cospetto di crimini come quelli contro le donne, ormai entrati nella coscienza collettiva come particolarmente abietti e ripugnanti. Il tema si era posto, in modo molto più drammatico, per i criminali nazisti, successivamente per i mafiosi e per i brigatisti.

Segno dei tempi, si comincia ora a discuterne per i femminicidi.

Obiezione di coscienza?

Il rifiuto di Rosanna Rovere, professionista impegnata per lo più nell’assistenza alle donne maltrattate, si può forse configurare come una sorta di “obiezione di coscienza”?

Non è un mistero né una sorpresa che le decine di avvocate che in tutta Italia lavorano con i Centri antiviolenza per scelta di coerenza non assumono difese fiduciarie di uomini accusati di stupro o di femminicidio, ma senza un particolare
clamore.
E accettando un conseguente e consapevole sacrificio economico. Tuttavia, come ribadisce ad Avvenire il penalista Mario Scialla, consigliere segretario dell’Ordine degli avvocati di Roma (26mila professionisti), l’obiezione di coscienza, prevista per i medici, non si estende ai difensori di fiducia, che in quanto liberi professionisti hanno sempre la possibilità di rifiutare un incarico se non si trovano in una situazione di serenità.

«I problemi semmai sorgono con gli avvocati d’ufficio, che sono tenuti per legge a prestare assistenza». Le “incompatibilità”, in questo caso, possono davvero essere laceranti.

«Difficile che un maltrattante si rivolga di sua volontà a una di noi, a meno che non abbia in mente una precisa strategia processuale che consiste nel scegliere come difensore una legale conosciuta per stare dalla parte delle donne, con l’idea che questo possa in qualche modo “sminuire” le sue colpe davanti al giudice e all’opinione pubblica», interviene Elena Biaggioni, referente delle avvocate per O.i.Re., Donne in Rete contro la violenza.

«Come possiamo lamentarci della vittimizzazione secondaria che subiscono le donne in udienza e poi magari doversi trovare a usare argomenti vittimizzanti per difendere qualcuno?», chiosa Biaggioni. “Il problema si pone più frequentemente per le colleghe iscritte nelle liste dei difensori d’ufficio.

E sì, può diventare un dilemma … Perché il diritto di difesa è sacrosanto e ovviamente ne riconosciamo l’importanza, insieme al principio di non colpevolezza». Un dilemma da risolvere, in tanti casi, chiedendo consiglio all’Ordine di riferimento.

I “buoni” e i “cattivi”

A un penalista accade di assistere una volta l’uomo aggressore e un’altra volta la donna vittima.

«Ovvio che se difende un reo confesso, la sua posizione può essere scomoda, ma è il nostro ruolo: garantire al cliente un processo equo», sottolinea Scialla, che aggiunge una considerazione sostanziale: l’avvocato non dà giudizi morali, ma cerca di rendersi utile per il suo assistito.

Eppure nella scelta di Rosanna Rovere e più implicitamente in quella delle avvocate antiviolenza esiste eccome una sorta di giudizio (o pregiudizio) morale sul crimine in se stesso e di riflesso anche sull’accusato.

Non senza conseguenze. Se un avvocato (o una avvocata, come in questo caso) invoca impedimenti morali a difendere un femminicida, colui che prenderà il suo posto potrà essere visto, perlomeno dall’opinione pubblica, come un professionista cinico e senza scrupoli. Anche a discapito della sua reputazione.

È un fatto che i crimini contro le donne urtano la sensibilità comune più che in passato e in una società che usa i socia[ media come una gogna, difendere un reo confesso qualche problema di “cattiva stampa” lo può causare. La posizione di Mario Scialla è chiara: non c’è spazio per conflitti di coscienza (o per lo meno, non così spesso) se si svolge seriamente il proprio lavoro.

«È normale per un professionista preoccuparsi della propria reputazione, ma per quanto mi riguarda penso che la pubblicità negativa arriva se non si conduce bene un processo».

C’è un altro passaggio interessante nel ragionamento del penalista romano: se si accetta di difendere un femminicida, lo si fa fino in fondo, senza riserve mentali o scrupoli di coscienza. Perché questo richiede il ruolo dell’avvocato e perché altrimenti si rischia di sostituirsi al giudice, costituendo un pre-giudizio per l’assistito.

Si fa ma non si dice

Dunque, Rosanna Rovere ha sbagliato ad abbandonare la di fesa del reo confesso di uxoricidio che le aveva chiesto assistenza oppure è stata sincera nell’invocare una coerenza di vita per tirarsi indietro?

In conclusione, la risposta potrebbe essere salomonica: si fa, perché è possibile se non si è in sintonia con l’assistito. Ma non si può rendere pubblico a mezzo stampa il motivo della propria scelta. Lo si desume dalla nota diffusa sulla vice nda di Pordenone dal Consiglio dei presidenti dell’Unione delle Camere penali del Veneto.

Nella paginetta di testo, si spiega che la libertà del difensore

«non può tradursi nel rilasciare pubbliche dichiarazioni sulle ragioni della mancata accettazione dell’incarico, perché ciò può pregiudicare la posizione giuridica dell’indagato/imputato (il che sarebbe già di per sé estremamente grave) e al contempo getta una pericolosa ombra sulla figura e il ruolo dell’avvocato».

La “pericolosa ombra” è quella che accompagna da sempre il mestiere del penalista: la sua “coincidenza” nell’opinione pubblica e talvolta nelle cronache giornalistiche con la posizione dell’accusato.

Soprattutto in casi di crimini ripugnanti come è il femminicidio (ma abbiamo citato il caso dei criminali nazisti, dei brigatisti o dei mafiosi), il rischio è che il difensore venga identificato con il suo assistito, «come se la tutela del diritto costituzionale di difesa divenisse difesa del crimine stesso».

Non a caso, dunque, il titolo del comunicato degli avvocati veneti è” Difendere tutti. Senza distinzione”. E in caso proprio non ci senta di farlo, meglio non dare troppe spiegazioni.

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